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Cor-rispondenze

domenica 11 marzo 2018

È giusto dimenticare?


Caro professore,
Ho trovato ieri pomeriggio una scatola da scarpe, molto vecchia. Aprendola ho trovato dentro un sacco di cose: giocattoli, una foto e perfino un libro per bambini. Era la scatola dei ricordi che io e la mia migliore amica avevamo fatto dieci anni fa (più o meno), il giorno prima che si trasferisse. Mi ero dimenticata di quella scatola, e rivedendo quei pezzetti di passato mi sono messa come al solito a pensare e ripensare, e mi sono chiesta se è giusto dimenticare così una cosa che è stata importante per noi, e se allo stesso modo sia giusto aggrapparsi quasi morbosamente ai ricordi. Per esempio, perché si tiene un diario? Io penso che non si voglia dimenticare veramente mai nulla, perché tutti i fatti accidentali, le cose brutte come quelle belle ci hanno in qualche modo plasmato, cambiato: ed è giusto dimenticare? La mente umana è costruita come un setaccio, le cose che riescono a infilarsi tra le maglie e a passare cadono nell'oblio, che può essere temporaneo o eterno, ma è dimenticanza vera, spontanea. È giusto aggrapparsi a qualcosa che per natura sarebbe destinato a passare? È bello sapere di avere un passato, ma a volte non sarebbe meglio dimenticare e basta?
Teresa, 17  anni


Cara Teresa,
L'animale, secondo Nietzsche, vive in modo non storico, perché la sua esistenza si risolve nel presente. L'uomo invece vive sotto il peso del passato, che talvolta ostacola i suoi progetti. Il filosofo parla pertanto del passato come di un fardello che l’umanità porta sulle spalle. Egli è convinto che un «eccesso di storia» impedisca all’uomo di vivere autenticamente e lo costringa ad aggirarsi nel mondo come un estraneo. Poiché ciascuno ha il dovere di inventare il proprio percorso, è quindi opportuno scordare parte del passato, anche se può essere doloroso separarsi dai propri ricordi e dalla propria storia. A volte dimenticare non ci sembra affatto giusto; perdere la memoria di ciò che un tempo è stato significativo ci appare irragionevole e immorale. Ma, dice il filosofo: “Ci vuole molta forza per poter vivere e per dimenticare, in quanto vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola”. Sono una cosa sola, perché per poter agire occorre lasciare fluire – anche temporaneamente – ciò che è accaduto. Siamo il risultato delle generazioni precedenti, delle loro passioni e dei loro errori, e certamente non possiamo affrancarci completamente dalla «catena» di ciò che ci ha generato, perché anche se non ne siamo del tutto consapevoli essa trasfonde ancora linfa alla nostra esperienza. Ma per vivere occorre creatività, forza, incoscienza, e ognuno di noi avverte la necessità di lasciare spazio agli eventi futuri. Il filosofo scrive che c’è dunque: “un diritto delle cose che devono venire”, ossia un’apertura del futuro che non dobbiamo ostacolare. A volte, come dici tu, avvertiamo la dimenticanza come un dispiacere, un danno, però se rimaniamo troppo legati a ciò che è accaduto non possiamo crescere. “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo – scrive l’autore, dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri” (“Sull'utilità e il danno della storia per la vita”). Se “per ogni agire ci vuole oblio”, c’è anche chi ha fatto della memoria un’esigenza irrinunciabile. Elie Wiesel (1928), il grande scrittore rumeno sopravvissuto all’Olocausto e premio Nobel per la pace, all’inizio del libro “L’oblio” (Garzanti, 2007) ha inserito la preghiera di Elhanan, un padre anziano che ripete a Dio “fonte di ogni memoria”, che “dimenticare è abbandonare, dimenticare è ripudiare”. Egli chiede a Dio di non dimenticare i suoi figli, ma anche di non dimenticare ciò che è accaduto al suo popolo. La preghiera è molto bella; te ne ripropongo una piccola parte: “Dio di Auschwitz, comprendi che devo ricordarmi di Auschwitz. E che devo ricordarTelo. Dio di Treblinka, fa' che l'evocazione di questo nome continui a farmi tremare. Dio di Belzec, lascia ch'io pianga sulle vittime di Belzec. Tu che condividi la nostra sofferenza, Tu che partecipi alla nostra attesa, non mi allontanare da coloro che Ti hanno invitato nel loro cuore e nella loro dimora. Tu che prevedi l'avvenire degli uomini, aiutami a non staccarmi dal mio passato”. […] “Sappi, Dio, che non voglio dimenticarTi. Non voglio dimenticare nulla. Né i morti né i vivi. Né le voci né i silenzi. Non voglio dimenticare i momenti di plenitudine che hanno arricchito la mia esistenza, né le ore di miseria che mi hanno gettato nella disperazione. Anche se Tu mi dimentichi, Dio, io rifiuto di dimenticarTi”. Malkiel Rosenbaum, l’ebreo protagonista del libro, ad un certo punto si innamora di una tedesca. È un fatto certamente particolare, una situazione problematica già in partenza. Un giorno i due si trovano a Berlino. Malkiel, ripensando a suo padre, diventa malinconico. Lei se ne accorge e gli dice: “È perché non voglio dimenticare nulla che ti amo; ed è perché tu devi ricordarti di tutto che non puoi amarmi”. È curioso: l’eccesso di memoria può condurre a risultati opposti: al vicolo cieco della negazione dell’amore o al fiorire della vita e al potenziamento della capacità di amare.
Un caro saluto,
Alberto