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Cor-rispondenze

lunedì 25 settembre 2017

Il nero per il bianco

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Caro professore,
La mia vita è sempre stata un po’ burrascosa, i miei genitori sono separati da quando sono nata e la mia infanzia l’ho passata tra litigi, questioni famigliari e anche tante delusioni da parte di persone dalle quali di solito non se ne aspettano. I genitori e la famiglia sono una parte fondamentale della vita, sono coloro che ci insegnano il bene e il male, l’amore e l’odio, ci insegnano a vivere, ma se una di queste figure manca, perché deceduta oppure perché si comporta come se non avesse figli, cosa può fare il figlio di questi per continuare a vivere nonostante la vita l’abbia ferito? Se ci si pensa con attenzione tutti noi abbiamo sofferto o stiamo soffrendo, perché la vita è anche questo; dolore, ma anche cose belle. Ecco, se una persona è stanca di aspettare “La quiete dopo la tempesta” perché la quiete non arriva, cosa si può fare da amica/o per aiutarla a sorridere, per dimostrarle che il sole torna sempre anche se non sembra. Io personalmente ho fiducia nella vita e nelle persone, anche se tendo ad auto proteggermi mostrandomi a poco a poco alle persone. Come si può far capire ad un’altra persona che la sua vita, per quanto nera possa sembrarle, in realtà rispetto a quella di altri è bianca, ovvero quasi perfetta? È questo un buon motivo per nascondere il proprio dolore perché sappiamo che c’è di peggio?
Emilia, 16 anni


Cara Emilia,
C’è un capitolo del libro “I sommersi e i salvati” di Primo Levi che si intitola “La vergogna”. Mi viene in mente perché Levi riflette su uno stereotipo che si ripete nelle aspettative e nell’immaginario delle persone dalla letteratura fino al cinema. Lo stereotipo consiste nel ritenere che dopo la tempesta giunga sempre la quiete. È in fondo la struttura con cui sono scritti i copioni dei film più diffusi. La trama racconta le traversie di un protagonista, ma alla fine tutto si risolve in positivo. Per dirla con Elie Wiesel, il finale diventa una “happy-end hollywoodiana” (“Giobbe o Dio nella tempesta”). Levi ricorda che, purtroppo, non sempre calma e serenità seguono la sciagura. Molte persone, dopo l’esperienza dei campi di sterminio e nonostante la liberazione dal tormento, non hanno più raggiunto la quiete. Il dolore fisico e quello morale si sono trasformati in vergogna per essersi salvati. Il dolore, come un fiume che non riesce a riversarsi nel mare, ha continuato a scavare nell'interiorità e la mancanza di uno sbocco ha generato altro male. Schopenhauer scriveva che se è vero che dopo una catena di momenti felici prima o poi arriva la sofferenza non è detto che dopo molto dolore giunga la gioia, perché il dolore può peggiorare e acutizzarsi. Per aiutare una persona a concentrarsi sugli aspetti positivi della propria esistenza ed essere soddisfatta, partirei da una storia. Quella di Nelson Mandela (1918-2013), premio Nobel per la pace e presidente del Sudafrica. Nel libro “Lungo cammino verso la libertà” egli rivela vari momenti della sua intensa attività politica. Devi sapere che è stato in carcere per 27 anni. Tale permanenza, che ha qualcosa di disumano, gli ha sottratto una parte consistente della vita. All’inizio della sua detenzione nell’isola di Robben Island, nel Sudafrica, Mandela chiese alla direzione del carcere di poter coltivare un orto. Per molti anni la richiesta gli venne rifiutata senza alcuna spiegazione, ma poi gli diedero un pezzo di terra vicino alla recinzione. Scrive Mandela: «Piantare un seme, vederlo crescere e raccoglierne i frutti era una cosa che dava una soddisfazione semplice ma durevole. La sensazione di essere il custode di quel piccolo pezzo di terra mi dava un lieve sentore di libertà». Considerando quell’attività una metafora della vita, egli ritiene che ognuno debba «curare il suo orto, piantare semi, coltivarli e raccoglierne i frutti, e come un contadino deve avere la responsabilità di ciò che coltiva». Io direi alla tua amica: immagina che la vita sia un orto che ti è stato affidato: dividilo in parti e in ogni piccola area semina qualcosa. Coltiva i sentimenti che ti rendono umana, segui una passione, alimenta i tuoi interessi, collabora con i compagni e coinvolgili nelle tue esperienze, lasciati affascinare dalla natura e dalle persone, commuoviti per il bello, partecipa alla creazione di qualche progetto, applicati nel tuo studio. Prenditi cura ogni giorno del tuo terreno e non scoraggiarti per la fatica. Passeranno i mesi e gli anni e anche tu raccoglierai i frutti nei vari settori a cui ti sei dedicata e altri risultati giungeranno in modo spontaneo e abbondante. Mandela insegna che bisogna lavorare per ottenere «una soddisfazione semplice ma durevole» e che occorre sentirsi «custodi» di ciò che ci è affidato. C’è una felicità che deriva dalla dedizione al proprio lavoro e alla tutela della sua lenta crescita. Sentirsi custodi significa prendersi cura della propria vita e di una parte di quel grande orto che è il mondo. Attraverso la perseveranza ci si emancipa da un passato scomodo e si sperimenta la libertà. Le azioni acquistano un senso, e quando la vita progredisce si è felici. Non nella forma dell’eccitazione momentanea, ma in quella, più stabile, della gioia per aver contribuito alla crescita di sé, anche quando si pensa – a torto o a ragione – di essere stati confinati in qualche piccola cella del mondo.
Un caro saluto,

Alberto

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