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Cor-rispondenze

lunedì 2 gennaio 2017

Il dolore profondo



Caro professore,
Si può raccontare il dolore profondo? Non si rischia di trasmettere questo dolore alla persona a cui lo si racconta? Ovvero, non è troppo “doloroso” per essere raccontato? Certo, ognuno ha la propria concezione del dolore, ma il dolore morale-psicologico non è forse quello che non può essere raccontato? O forse è addirittura troppo complesso parlarne?
Giovanni, 3I

Caro Giovanni,
I bambini piccoli non hanno le parole per raccontare il dolore e sono sovrastati dal male. Gli adulti hanno le parole, ma ci sono dolori che eccedono le parole. Qualche anno fa, durante gli esami di Stato a Casale Monferrato, ho conosciuto una studentessa che aveva tradotto dal farsi un libro che raccontava la vita di una donna iraniana. Il libro si intitola “Quello che mi spetta” (Garzanti). Al termine degli esami ho immediatamente comprato il libro, l’ho letto avidamente e dopo l’estate ho invitato la ragazza a raccontare quella vicenda ai suoi coetanei in alcune assemblee di istituto. Ho ripreso quell'opera, perché narra le sofferenze di una donna vissuta in una cultura che le ha sottratto la libertà e ho ritrovato in quella storia molti volti di un dolore profondo e silenzioso. Dopo la perdita del fratello Ahmad, la giovane protagonista piange per una settimana, ma poi si accorge del modo insolito di manifestare la disperazione di uno dei suoi figli, Siamak: «Non versava una lacrima, ed era come una bomba pronta a scoppiare». Anche la nonna era delusa, perché il bimbo non aveva pianto neppure alla sepoltura del nonno, ma la mamma comprende invece che il bambino si sente così male «da nascondere il proprio dolore anche a sé stesso». Così un giorno lascia il figlio più piccolo da un’amica e va alla tomba del padre. Scrive l’autrice: «restammo lì, immobili e silenziosi, per qualche minuto, mentre lui cercava di estraniarsi da tutto, volando lontano con la mente ed evitando il mio sguardo. Lo feci sedere accanto a me e gli parlai dei miei ricordi di mio padre, dei suoi pregi e difetti, del suo amore per noi, e continuai finché le sue lacrime diedero finalmente sfogo a tutto il dolore represso. Quando Masuud [il figlio più piccolo] tornò a casa, Siamak piangeva ancora, e piansero insieme. Lasciai che si sfogassero senza intervenire: dovevano tirare fuori la sofferenza che attanagliava i loro piccoli cuori». Elie Wiesel, lo scrittore di origine ebraica sopravvissuto alla Shoah e premio Nobel per la pace nel 1986, per circa dieci anni dopo la guerra non scrive nulla e non racconta la propria esperienza. Pubblica “La notte”, il primo libro in cui narra l’orrore, solo nel 1958. Per dieci anni porta dunque dentro di sé un male che non può essere definito né circoscritto dalla parola, e forse neppure condiviso. Qualche anno dopo con Jorge Semprún, un altro scrittore sopravvissuto ai campi di concentramento, pubblica il libro “Tacere è impossibile” (Guanda, 1996). Si tratta di un dialogo sull'opportunità o meno di raccontare le drammatiche vicende vissute. Ad un certo punto i due autori scrivono: «J.s.: Qualche volta si scrive, non sempre. Non scriviamo solamente di questo, né tu né io, e scriviamo sapendo che ci sono cose che non sono... E.W.: ... che non possono essere dette. J.s.: Non si può dire tutto. Non si può far immaginare, far capire tutto. È chiaro che è impossibile. E.W.: Tacere è proibito, parlare è impossibile». Parlare è impossibile, perché nessuna parola può rendere il male radicale, ma tacere è impossibile, perché c’è un dovere morale di far conoscere e di testimoniare. Come vedi, il male subìto richiede tempo e anche gli adulti fanno fatica ad affidarlo alle parole. I bambini possono essere sopraffatti dal dolore, quello di una violenza subita, della perdita di un famigliare o di una persona cara, ma ci sono forme di dolore che ammutoliscono anche gli adulti. Tuttavia le persone piangono anche per una storia raccontata in un libro o all’uscita del cinema dopo aver visto un film: si identificano nella vita di un altro, anche di uno sconosciuto, perché sentono che il dolore non appartiene solo alla persona che soffre, ma un po’ a tutti. Sì, il dolore – come la gioia – si trasmette all’altro, per questo bisogna saper scegliere le persone a cui lo si può affidare e che sono in grado di accoglierlo. Quando ascoltiamo le confidenze di qualcuno non eliminiamo definitivamente la sua afflizione, ma nell’atto della condivisione mostriamo che il suo dolore non ci è estraneo e ci riguarda. E poiché il dialogo interpersonale è terapeutico, ci sono dolori che certamente si attenuano nella relazione. C’è un dolore, per così dire, ordinario, quello che ci accomuna nelle esperienze della vita, piccoli mali, minime disfatte, che siamo soliti raccontare perché non ci sovrasta; ma c’è un dolore più profondo che eccede la comprensione e le categorie con cui cerchiamo di razionalizzare la vita. È questo dolore che trascende la nostra capacità di arginarlo razionalmente ed emotivamente che è difficile da raccontare. Però è importante comprendere che ogni uomo è sempre più del proprio dolore, e pertanto non si deve indentificare con esso. Se nella vita trasmettiamo la nostra gioia, dobbiamo anche avere il coraggio o, come dici tu, accettare il "rischio"di comunicare il dolore. Fa anch’esso parte della vita. Imparando ad accogliere il dolore dell’altro diventiamo più umani in quanto avvertiamo la natura effimera che ci costituisce.
Un caro saluto,
Alberto

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