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Cor-rispondenze

lunedì 19 settembre 2016

Il legame che mi manca





Caro Professore,
Nella vita di un uomo accade spesso di affezionarsi a “qualcosa”. Questo “qualcosa” può essere un oggetto, un animale o una persona. Ma la vera affezione, purtroppo, si riesce a comprendere solamente quando si perde quel “qualcosa”. Un esempio concreto vissuto sulla mia pelle è l’abbandono dei miei compagni e dei professori che quest’anno ho dovuto patire. Con loro ho vissuto una buona parte della mia vita degli ultimi cinque anni. Quel “qualcosa” per me erano loro, i miei compagni e miei professori, che ora purtroppo ho dovuto lasciare. Solo ora riesco a comprendere quanto sono stato fortunato e quanto mi ero legato a loro anche se molto spesso non l’ho dimostrato quando avrei dovuto (Magari passando un po’ più di tempo con i miei amici o studiando un po’ di più per i miei professori). La mancanza di quel “qualcosa” a cui ti sei affezionato ti porta a percepire un vuoto dentro di te che è molto difficile da ricolmare. Una sensazione di dolore ed insensatezza riempie immediatamente quel vuoto nell’animo umano. I ricordi possono essere una soluzione a questo dolore. Essi rimarranno nella mente degli individui per un certo periodo ma non saranno mai all’altezza dell’azione vissuta nell’istante. Inoltre i ricordi spesso portano l’amarezza per il tempo passato ed andando avanti con la vita essi verranno dimenticati e non potranno mai più essere recuperati. Ma il dolore che si crea nel caso della affezione tra persone è forse il più doloroso. Quando si crea una relazione forte di stima e di confidenza tra esseri umani si creano legami fantastici. Tali legami possono raggiungere un’armonia così formidabile che basta uno sguardo tra i due individui per comprendersi. Tuttavia essi sono facili da spezzarsi e quando questo accade sono molto dolorosi per gli uomini. Ma il dolore in questo caso ha un avversario tenace. Il rivale, nel caso in cui fosse parecchio presente nel cuore della persona, riduce notevolmente la sofferenza per l’assenza. Questa forza contraria al dolore è la speranza. La speranza di poter rincontrare un giorno i tuoi vecchi compagni con i quali hai vissuto un sacco di avventure o rincontrare i tuoi cari insegnanti che ti hanno permesso di crescere ed imparare a vivere. Questo dolore però aumenta notevolmente quando la perdita di quel “qualcosa” è totale. L’esempio più evidente è la morte. In questo caso lo squarcio tra l’individuo e quel “qualcosa” a cui ti sei affezionato è totale. In questo caso la speranza non può comparire ed il dolore schiaccia e opprime completamente l’individuo. Credo fortemente che la perdita della persona amata e stimata sia uno dei maggiori dolori che l’anima umana deve sopportare. L’impossibilità di parlare nuovamente con la persona defunta e i numerosi sensi di colpa che riempiono l’animo dell’individuo, magari per le occasioni mancate o per le cose non fatte, riportano alla mente le debolezze dell’uomo e la difficoltà della vita. Su quest’aspetto l’umanità non si è mai sviluppata. L’uomo nel corso del suo sviluppo ha sempre cercato di eliminare e cancellare tutto ciò che lo danneggiava fisicamente e mentalmente. Ma nel caso dell’affezione non è mai riuscito totalmente a distaccarsene. Due sono le possibili soluzioni al dolore che si crea. O vivere nella completa indifferenza. Nell’atteggiamento di distacco e di liberazione dalle passioni nei confronti del mondo, come sosteneva Montale nella poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, e non provare alcun sentimento nei confronti di quel qualcosa che hai perso, non affezionandosi più a nulla; oppure continuare a vivere tenendosi dentro quel dolore. Quel dolore che ritorna ogni volta che il ricordo di quel qualcosa torna nella mente. Personalmente credo che entrambe le soluzioni abbiano dei difetti che portano nell’uomo sofferenza. Ma qual è la giusta via? Come si deve comportare l’uomo nei rapporti con gli altri individui, con gli altri esseri viventi (e non) a cui si affeziona? L’uomo deve distaccarsi dal mondo in cui vive e provare una completa indifferenza nei confronti delle relazioni o creare legami forti con gli elementi che lo circondano, con gli elementi del mondo nel periodo in cui è stato gettato, ma provando dolore ogni qual volta che un legame si spezza?   
Alessandro, ex 5A

Caro Alessandro,
Se alla fine di quinta sentiamo la mancanza delle relazioni consolidate con compagni e insegnanti, significa che il processo di maturazione, che altro non è se non un processo di umanizzazione, si è avviato ed è enormemente progredito. Tuttavia, riconoscere che i legami cambiano non ci pone nell’aut-aut tra indifferenza e passione. Essere indifferenti significa anche non saper vedere le differenze. E le differenze qualitative nella vita ci sono. Anche se il dolore per la perdita di un legame può essere destrutturante, bisogna decidere se vivere come spettatori o partecipare al gioco. Vivere come spettatori ha i suoi indubbi vantaggi: non si soffre, perché non ci si appassiona seriamente a nulla. Partecipare al gioco significa accettare di modificare se stessi e la realtà, significa sapere che si sarà destabilizzati, ma che si avrà accesso ad una vita piena e vera. Io preferisco la lezione del Fedro di Platone: non una ragione priva di emozioni, ma una ragione guidata dalle passioni. È il cavallo bianco della passione buona che ci trascina, e poiché grazie alla sua forza (nonostante le resistenze e le sconfitte) traccia un percorso, consente alla ragione di illuminare più aspetti della realtà e di vedere più lontano. Passare dalle emozioni ai sentimenti è un grande traguardo. È la porta stretta che ci fa diventare uomini.
Un caro saluto e un caro augurio per i tuoi nuovi studi!
Alberto