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Cor-rispondenze

lunedì 30 marzo 2015

L'amore e la morte


 

Caro professore,
personalmente ho avuto molti fulmini che mi hanno colpita e messa in dubbio su diverse cose della vita, ma la cosa che mi ha scatenato più interrogativi è stato il suicidio di mio padre. Dalla sua morte mi sono posta troppe domande a riguardo di ciò che mi circonda; ma non saprei bene come strutturare la domanda, ma credo che il quesito mi possa venire in mente partendo da una frase che si trova sulla lapide del mio papà che al momento non ricordo a memoria ma che dice che senza amore noi ci priviamo della vita stessa. E per questo la mia domanda è: quanto conta l’amore per continuare a vivere.
Paola, I A

Cara Paola,
Anche Giacomo Leopardi canta più volte nella sua opera che senza amore la vita è un «deserto» e che la Terra sarebbe «inabitabile». Egli afferma nel Canto «Amore e morte» che laddove c’è il conforto dell’amore nasce il coraggio o si riaccendech’ove tu porgi aita, / Amor, nasce il coraggio / o si ridesta»). E se è vero che l’amore ridesta il coraggio per la vita, vorrei tuttavia raccontarti una vicenda che parla dell’amore e della morte che ci permetterà di fare alcune considerazioni che mi sembrano vicine al tuo dolore. Forse la conoscerai già: è la storia di Priamo e Tisbe narrata dal poeta Ovidio nelle Metamorfosi. Priamo, «il più bello di tutti i ragazzi», e Tisbe, «fra le bellezze di tutto l'Oriente la più corteggiata», vivono in case contigue. Si amano e vogliono sposarsi. I genitori proibiscono il loro matrimonio, ma non possono proibire il loro amore crescente. Così i due si parlano «a cenni e segnali» attraverso una fessura sottile del muro che separa le case. Un giorno decidono di fuggire e di darsi un appuntamento al sepolcro di Nino sotto un grande gelso stracarico di bacche bianche nei pressi di una sorgente gelata. Tisbe arriva per prima e si siede sotto l’albero. Ma poi vede avvicinarsi una leonessa che va a dissetarsi nell’acqua della sorgente «con le fauci che schiumano sangue di buoi appena sgozzati». Tisbe con le gambe tremanti riesce a fuggire, ma nella fuga perde il velo di dosso. La leonessa, placata la sete, mentre si addentra nel bosco vede l’indumento e «lo straccia senza badare con le zanne insanguinate». Quando Priamo si inoltra nella foresta vede le orme della belva e «sbianca tutto nel viso». Quando vede lo scialle macchiato di sangue si dispera, perché immagina l’amata uccisa e si accusa per averle proposto tale incauto incontro nella foresta. Così arriva alla conclusione che «un’unica notte perderà due amanti»: sia la ragazza sia lui stesso («fatemi tutto a brandelli, sbranate a morsi feroci queste viscere scelleratissime, leoni voi tutti che avete la tana fra queste rocce»). Poiché ritiene che invocare la morte sia da vili, prende una spada e se la conficca nel ventre. Le radici dell’albero inzuppate di sangue tingono di porpora le more sui rami. La ragazza torna indietro, riconosce il posto ma non il colore delle more. Quando vede il corpo dell’amato che trema e pulsa, piange e lo abbraccia. Chiama Priamo e alla voce di Tisbe «lui alza gli occhi già spessi di morte, e vistala appena, subito li richiude». Anche lei dimostrerà altrettanto amore e affonderà il colpo su di sé, affinché neppure la morte li possa dividere. Ho scelto di raccontarti questa storia per dirti che come Priamo, accecati da un particolare, ci si può uccidere per ragioni sbagliate, per una valutazione parziale degli eventi, per una sopravvalutazione del negativo, per ottundimento della ragione, per incapacità di reggere un peso, di sostenere una lontananza. Molte decisioni non pianificate da tempo, vengono prese quando la mente in stato di sofferenza estrema non riesce a scorgere alternative. Magari il soggetto ingigantisce gli eventi e contrae il significato di una vita su alcuni frammenti sfavorevoli. Non possiamo sempre leggere correttamente negli abissi della sofferenza umana né comprendere la lettura delle situazioni quando la vista di un adulto è fortemente sfocata dalle lenti del dolore o di una malattia. Ma non si possono creare nessi causali diretti tra un evento e una decisione tragica. Anche nelle calamità gli uomini reagiscono diversamente, perché in ogni scelta converge la storia individuale. Un genitore si toglie la vita quando non riesce più a rendersi conto che il dolore della sua assenza sarà di gran lunga maggiore del suo. L’amore che sottrae è superiore all’amore che ritiene di non ottenere, ma la sofferenza estrema, purtroppo, oscura la mente. Certo, è vero che l’amore aiuta a vivere, tuttavia a volte cadiamo nella considerazione unilaterale che la misura dell’amore che potenzia o debilita l’esistenza individuale sia quantificabile da ciò che si riceve. E dimentichiamo che non c’è solo l’amore che si ottiene, ma anche quello che si dà. L’amore non è passività (quello che si riceve), ma attività (quello che si dà). Ossia un certo modo di affrontare la vita, di prendersene cura. In quel prendersi cura di qualcosa o di qualcuno c’è una forza enorme, la forza più grande di un essere umano. Qualche volta gli uomini la smarriscono, ma quando intravedono che i benefici che si ricavano dalla cura sono enormi, si rendono conto che è questo tipo di amore che può ridestare la vita. Prendersi cura “fa nascere il coraggio o lo riaccende”: guarisce le ferite e aiuta a sopportare anche la distruttività del dolore.
Un caro saluto,
Alberto

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