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Cor-rispondenze

lunedì 17 novembre 2014

Collezioniamo momenti



Caro professore,
Sentiamo sempre più spesso ormai il bisogno di fotografare cosa ci sta attorno. Persone, oggetti, messaggi. Vedo tutte queste persone con queste macchine fotografiche enormi e supertecnologiche o con i telefoni in mano pronti a scattare, ed è strano. È strano perché io mi chiedo perché lo stiano facendo, perché sia così necessario catturare un preciso istante della nostra vita. Perché? Ho paura che sia per non dimenticare, ma dimenticare cosa? Collezioniamo momenti, ma io non ne capisco il motivo.
Sara, III D

Cara Sara,
L’espressione «collezioniamo momenti» è bella ed efficace: esprime un bisogno profondo e mette in evidenza anche alcune fragilità dell’uomo che non si accontenta di vivere, ma vuole perpetuare la vita e moltiplicare gli istanti di felicità, per goderli anche quando non è soddisfatto del proprio vissuto. Un po’ come fanno le formiche prima dell’inverno, quando raccolgono le briciole per sfamarsi nei periodi di magra, così gli uomini catturano istanti per prolungare la rifrazione di un attimo felice. In fondo, il mondo non fa altro che meravigliarci e le fotografie ci restituiscono la sua complessità: se il tempo cancella rapidamente la vita, l’uomo desidera contro il tempo riaffermarla, sottrarla al dissolvimento, per proiettare nel futuro qualche pulsazione luminosa, per riacciuffare la propria vita in un fotogramma e fondersi nuovamente in essa. Il tempo del mondo è vertiginoso e contratto, quello della vita è lento e disteso. Allora a volte le fotografie sono un modo per dilatarlo, consentono all’uomo di isolare particolari, soffermarsi su dettagli o suggeriscono nuovi pensieri. Credo che siano come parole o elementi della sintassi della propria storia personale. Parole, perché scatti ravvicinati esprimono ciò che il nostro analfabetismo linguistico non riesce a descrivere né quello emotivo a evocare senza figure di supporto. Ma sono anche lo sfondo da cui si originano nuovi discorsi che vogliamo sentire appropriati e che senza l’ausilio di ciò che si è ancorato sulla carta o nei file non siamo più in grado di pronunciare. La fotografia, che letteralmente è “scrittura con la luce”, oggi serve per far “venire alla luce” il mondo, in quanto permette la scoperta di particolari della natura e della vita. La ripresa differita di tali frammenti fa sì che la felicità si re-innesti nella memoria e attraversi il cuore. Per questo per gli antichi “ricordare” era un “re-cordare”, reimmettere nel (cor) cuore. È, in fondo, la nostra piccola ricerca del tempo perduto. L’errore è che spesso crediamo che per acciuffare la vita se ne debba riprodurre il più possibile. E passiamo dalla selezione alla collezione. La selezione implica una scelta, la collezione è incapacità di scegliere. La scelta è regolata da un senso, la collezione da assenza di visione. Gli scatti che anche tu senti così compulsivi suscitano attenzione, perché segnalano una caratteristica della nostra epoca: invece di scendere in profondità rimaniamo in superficie accumulando. L’accumulazione di istanti è il nuovo modo di stare al mondo: consente di creare la propria identità e di certificare la propria storia. Così la paura di perdere il momento che si sta vivendo o di non viverlo a sufficienza porta ad uno sdoppiamento dello sguardo: si vive il presente con l’occhio (fotografico) che mira più alla registrazione e alla posticipazione del vissuto che all’identificazione completa con la vita che scorre. Abbiamo bisogno di un’eco successiva per considerare un episodio finito. L’evento non si compie nel momento in cui lo si vive, la sua conclusione è sempre posticipata come se esso acquistasse un “valore aggiunto” in base alle persone che lo vedranno e lo commenteranno. Ma il collezionismo implica la “lacuna” in una serie: di quante fotografie abbiamo bisogno per certificare il nostro vissuto? Dieci, cento o mille? Tendiamo a riempire i vuoti tra un fotogramma e l’altro, per impossessarci della vita, per riprodurla integralmente. Abbiamo paura di perdere la realtà e pensiamo affannosamente di possederla replicando le immagini di essa. Ma la vita non è la collezione di tutti i momenti (non avremo mai il tempo di contemplarli integralmente). Penso che un rimedio a questa corsa forsennata dietro la duplicazione di ogni istante consista nell'adottare uno sguardo che sappia scrutare la realtà in lontananza. Lo scrittore Claudio Magris in “Danubio” ci aiuta a considerare non solo la dimensione orizzontale della vita, ma la sua stratificazione grazie alla letteratura. Scrive l’autore: «Non so se qualche scrittore di fantascienza abbia inventa­to una macchina fotografica spazio-temporale capace di riprodurre, magari in ingrandimenti successivi, tutto ciò che nei secoli e nei millenni è esistito in quella porzione di spa­zio inquadrata nell'obiettivo. Come le rovine di Troia con gli strati delle nove città o una formazione calcarea, ogni pezzo di realtà esige l'archeologo o il geologo che la decifri e forse la letteratura non è altro che quest’archeologia della vi­ta». La letteratura è pertanto una fotografia di profondità che, mettendo in luce l’archeologia della vita, consente di rallentare il tempo, di viverlo meglio e di comprenderlo: è una fotografia che seleziona e non accumula. Per questo ci consente di sfuggire alla tirannia dell’istante.
Un caro saluto,
Alberto

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