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Cor-rispondenze

lunedì 13 gennaio 2014

Aprirsi ad un estraneo



Caro professore,
la mia riflessione la scrivo sull'esperienza più bella, ma anche più malinconica delle vacanze. Come volontariato ho aiutato due signore del mio paese a mandare avanti un’iniziativa che dura ormai da una trentina di anni: andare a trovare gli ultra ottantenni di Valgrana, portando loro alcuni doni per le feste. È stata un’esperienza che mi ha impegnata per due giorni. Il secondo giorno abbiamo visitato un pensionato dove una signora che non era nativa di Valgrana mi ha fermata e mi ha parlato. Mi sono fermata con lei, pur non conoscendola. Mi ha parlato della sua vita, ero un’estranea eppure notavo nei suoi occhi la voglia di tornare ragazza, di vivere. Mi ha confessato di sentirsi tanto, troppo vecchia, di avere nostalgia della sua Genova nella quale aveva vissuto fino a tre mesi prima. Tante domande scaturiscono da questo fortunato incontro...Perché a volte ci troviamo di fronte ad estranei ed è così spontaneo aprirsi a loro raccontando la propria vita, mentre fatichiamo a parlarne a coloro che ci stanno vicino? Perché dunque è stato così spontaneo per tutte e due confidarsi?
Stefania, 4B

Cara Stefania,
È probabile che ognuno porti con sé conflitti sospesi, problemi differiti nel tempo, residui di sofferenze antiche. O, più semplicemente, una profonda necessità di comunicare. Uno dei più importanti psichiatri italiani, Eugenio Borgna, citando le parole del poeta tedesco Friedrich Hölderlin, ha persino intitolato un libro “Noi siamo un colloquio”, per sottolineare l’imprescindibilità della relazione. Pensa che l’apertura a un estraneo era stata individuata da Freud come l’inizio dell’attività psicoterapeutica. Per poter fare lo psicoterapeuta era (ed è) necessario aprirsi ad uno sconosciuto. Freud, incoraggiando i propri allievi, scriveva: «Il sacrificio che comporta l'aprirsi ad un estraneo senza esservi indotto da malattia, viene ampiamente ricompensato. [...] Siffatta analisi di una persona praticamente sana rimarrà, com'è naturale, inconclusa» (Freud 1912). Anche se non utilizziamo il colloquio come trattamento specifico, perché non siamo specialisti, è importante sapere che il semplice dialogo è già terapeutico. Poiché siamo esseri relazionali, nel dialogo cerchiamo e doniamo attenzione e condividiamo l’interiorità. È nella relazione empatica che si comprendono da prospettive differenti le tematiche esistenziali che stanno più a cuore, si soppesano le opinioni, si accolgono i pensieri, i sentimenti e i valori degli altri. Quando qualcuno ha un’urgenza, sente come improrogabile il desiderio di comunicare ciò di cui ha bisogno o che reputa importante a qualcuno di cui si fida o da cui pensa di poter ricevere aiuto. Così, spesso, gli anziani, confinati in luoghi dove le relazioni sono circoscritte a poche persone che non hanno grande potere di azione, si rivolgono ai giovani sperando di essere creduti, affinché qualcuno torni a considerare importanti le loro parole e i loro vissuti. Talvolta siamo impazienti, perché sappiamo già la storia che staranno per raccontare, così riduciamo la nostra attenzione e precipitiamo i giudizi, incuranti – come direbbe Borgna – «di sentire il respiro dell'anima e il grido silenzioso dei cuori feriti»; diventiamo così incapaci di “riconoscere le attese” dell’altro. Mi piace molto questo concetto: sei stata ad ascoltare le risonanze interiori della signora genovese e lei ha capito che eri in grado di “riconoscere le sue attese”, ed è anche per questo che si è confidata. Eugenio Borgna nel libro “L’attesa e la speranza” (Feltrinelli 2005) si chiede: «so riconoscere le attese della persona che ho dinanzi: nelle sue ambivalenze e nelle sue speranze franate: ma nonostante tutto ancora galleggianti nella sua anima?». Pare proprio che tu ci sia riuscita. Questa confidenza reciproca non è un gesto di resa, ma di coraggio. Affidiamo ad un estraneo ciò che più sta a cuore, perché talvolta è colui che è più disposto ad ascoltare, privo di pregiudizi e valutazioni affrettate. L’altro suscita le nostre aspettative, poiché non avendo rubricato la nostra esistenza in schemi definitivi incoraggia la nostra fiducia, per cui diventa facile af-fidarsi e con-fidarsi a qualcuno. Sei dunque riuscita con l’attenzione sincera – direbbe l’autore – a «riaccendere le fiammelle di una speranza». Quando invece si affievolisce la fiducia relazionale, si eclissa fino a spegnersi la vita interiore e, più in generale, la vita.
Un caro saluto,
Alberto

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