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Cor-rispondenze

lunedì 14 ottobre 2013

Il doping e il limite



Caro professore,
Le sostanze dopanti sono guardate da tutti con disprezzo, a parte da chi ne fa uso. Con questa riflessione non intendo difendere questi prodotti né consigliarli, ma c'é una cosa riguardo ad essi che considero sbagliata: il fatto che siano illegali. Questo, secondo me, non è corretto: è giusto che siano banditi dalle competizioni, perché altrimenti vincerebbe chi può permettersi le sostanze migliori, ma perché proibirli a tutti? Se una persona non è intenzionata a gareggiare, perché non può assumere queste sostanze? Magari il suo sogno è di superare i propri limiti, ma farlo per se stesso. Magari è consapevole degli effetti collaterali di questi prodotti, ma li accetta, perché confida molto nel risultato. Perché deve stare sotto al limite imposto dalla natura? Solo perché la società non vuole che lo si superi? Magari una persona ha piacere di riuscire a correre per 200 chilometri, senza però mai prendere parte a delle gare, facendolo solo per sé. Perché non deve poterlo fare?
Lorenzo, 4E

 
Caro Lorenzo,
Rileggendo il libro del sociologo francese Alain Ehrenberg, “La fatica di essere se stessi” [Einaudi 1999] ho scoperto che nel 1988 apparve in Francia una “Guida ai 300 farmaci per superare i propri limiti fisici e intellettuali”. Ehrenberg ricorda che il libro fece scandalo e che gli autori – anonimi – difendevano, in una società ormai «esasperatamente competitiva», il «diritto al doping». Sembra che oggi si accetti che l’organismo possa essere stimolato per superare i propri limiti, proprio come si ammette l’uso di ansiolitici che, diminuendo l’angoscia, rendono la persona più tranquilla e disinibita. Gli imperativi del nostro tempo sembrano essere: “superare i limiti”, “migliorare le prestazioni”, “stimolare”, “potenziare”. Ci siamo abituati a sentir parlare di farmaci che migliorano l’umore, aumentano la padronanza di sé e mitigano i traumi dell’esistenza. Ma phàrmakon è insieme rimedio e veleno. Ci siamo sbilanciati sul rimedio e abbiamo dimenticato il veleno. E qual è il limite da oltrepassare a cui si aspira? Ci sono superamenti che provocano danni irreversibili. Qualche settimana fa è morto per doping a 33 anni Daniele Seccarecci, il body-builder di Taranto che aveva il braccio più grande al mondo (55 cm). Kant, nella “Fondazione della metafisica dei costumi” (1785), scriveva: «Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo, e mai come semplice mezzo». Perché avrebbe dovuto soffermarsi a spiegare cosa si deve intendere per “umanità”? È chiaro a tutti. Eppure Kant raccomanda di includere anche la “propria persona”, affinché non trattiamo gli altri come strumenti per i nostri scopi, ma neppure noi stessi. Non è morale considerare il valore del corpo solo per raggiungere dei fini. Potremmo pensare che l’onestà abbia valore solo nella relazione con gli altri. E che se non c’è competizione allora non c’è imbroglio, se non si cerca di prevalere disonestamente allora tutto è lecito e non si infrange alcuna etica. Io non credo che si faccia una cosa solo per sé. Non è per se stessi che ci si potenzia artificialmente. È per comunicare qualcosa. Allora il doping non è forse una forma di compensazione per raggiungere un obiettivo non esplicitamente dichiarato? Credo che sia necessaria una prudenza, che impone di rispettare il corpo, di farlo riposare, di nutrirlo in modo corretto, di non considerarlo solo una macchina per raggiungere degli obiettivi. C’è un superamento dei limiti che non è più affinamento di un talento, ma è “hybris”, tracotanza, incapacità di accettare la propria natura. Secondo me esprime un’inadeguatezza di fondo, un’incapacità di vivere senza dover per forza mostrare una presunta superiorità. Forse è la mancata accettazione di sé il problema sotterraneo da curare: i Greci ci hanno insegnato che per vivere bene l’uomo non deve dissipare la propria vita in una corsa disastrosa polarizzata al potenziamento, ma deve prendersi cura di sé, per evitare che le aspettative degli altri abbiano eccessivo potere su di lui. In questo senso occorre non barare: non solo con gli altri, ma neppure con se stessi. «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Ottima è la misura». La saggezza degli antichi ci ricorda che, proprio nel “limite”, l’uomo può essere felice.
Un caro saluto,
Alberto

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