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Cor-rispondenze

lunedì 10 gennaio 2011

Nella mia vita manca qualcosa



Caro professore,
Fin da piccola ho sentito che nella mia vita mancava qualcosa.
Ancora oggi quel buco mi accompagna e sopravvive più coriaceo di volta in volta attraverso tutte le vicissitudini che ho attraversato. Non so come sanarlo. Si potrebbe dire un malessere causato dall’adolescenza ma, essendo antecedente all’adolescenza, questa constatazione non regge, almeno credo...
Eppure, se ci rifletto sopra, la mia vita ad una prima occhiata può sembrare serena: sto discretamente bene economicamente, la situazione con i miei genitori è tutto sommato tesa il necessario, a scuola potrei andare peggio…
Allora, dove sta la ragione di questo mio vuoto lacerante, che spesso mi devasta tanto da farmi piangere e strillare di punto in bianco come se una spada mi passasse il cuore da parte a parte?
Da dove deriva questa infelicità che mi tormenta da così tanto tempo, e a cui niente sembra porre rimedio?
Martina


Cara Martina,
1. Nella vita manca qualcosa. Non a te in particolare, ma a tutti gli uomini. Non è solo una questione psicologica ("un malessere causato dall’adolescenza"), ma è una faccenda più profonda che ha a che fare con la natura stessa dell’esistenza umana. Per questo riconosci che il vuoto è “antecedente” all’adolescenza, ma ti assicuro che tale sensazione si può manifestare anche in qualunque momento della vita adulta. Filosofi, scrittori, pittori e musicisti hanno cercato di porsi di fronte a questo vuoto (ni-ente, nulla), e hanno generato riflessioni sorprendenti, o da far venire i brividi, immagini suggestive, musiche straordinarie. Blaise Pascal (1623-1662) diceva che agli uomini manca sempre qualcosa, perché la condizione umana occupa uno spazio tra due estremi: il tutto e il nulla. E allora qual è la caratteristica della nostra natura? “Voilà notre état veritable”, “Ecco la nostra vera condizione”, direbbe il filosofo: siamo qualcosa di intermedio tra il tutto e il nulla. Non siamo “né angeli né bestie”, ma uomini. Se fossimo angeli non subiremmo il condizionamento del finito, non temeremmo di perdere la vita; se fossimo bestie non sentiremmo che l’esistenza è sospesa nel tempo né la responsabilità dell’agire. Saremmo regolati dall’istinto e probabilmente avremmo meno problemi. Pascal diceva che gli uomini, per non avvertire l’angoscia e per non affliggersi, si disperdono nelle diverse occupazioni e nei divertimenti. Ma né la corsa verso le cose (gli enti) né il loro possesso appagano il vuoto esistenziale. Questo vuoto (“che spesso mi devasta tanto da farmi piangere e strillare di punto in bianco come se una spada mi passasse il cuore da parte a parte”), appartiene a tutti gli uomini, indistintamente. E questo vuoto lo chiamiamo angoscia.
2. L’angoscia: dobbiamo circoscrivere un po’ l’ampiezza di questo termine, spiegando cosa intendiamo. Molti autori hanno cercato di individuare le cause dell’angoscia; ad es. per Sigmund Freud (1856-1939) sarebbe intimamente legata a una colpa; per lo psicologo parigino Pierre Janet (1859-1947) sarebbe prodotta da una depressione, mentre secondo il sociologo francese contemporaneo Alain Ehrenberg (1950) farebbe parte delle “malattie dell’insufficienza”, ossia deriverebbe da un “senso di insufficienza" per ciò che gli uomini potrebbero fare ma non sono in grado di fare, per le alte aspettative che condizionano la vita e per la scarsità dei risultati che gli uomini riescono a conseguire. In ogni caso, in questa breve riflessione, non alludo a questi importanti autori. Preferisco far riferimento a due filosofi: al filosofo danese Soeren Kierkegaard (1813-1855) e al filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976).
Come hai visto, ogni tanto ho inserito delle parentesi contenenti queste parole: (“ni-ente”), (“gli enti”). Questo per distinguere l’angoscia dalla paura. Si ha paura di qualcosa - ente - (ad es. di parlare in pubblico, dei serpenti, di un’interrogazione, del dentista), ma ci si angoscia per “ni-ente”. Ossia non vi è un oggetto specifico che fa nascere l’angoscia. La paura del dentista, termina alla fine dell’appuntamento: se si toglie l’oggetto – l’ente – la paura si dissolve. Mentre l’angoscia (il “buco coriaceo” di cui parli), proprio perché non è legata a nessun oggetto in particolare (ni-ente), ossia a “nessun ente”, è una dimensione tipica della condizione umana. Infatti ci si angoscia per un “nulla”, non per un oggetto specifico. L’angoscia di cui parliamo, e su cui Soeren Kierkegaard e Martin Heidegger hanno scritto pagine bellissime, è l’angoscia che sorge di fronte alla condizione dell’uomo. Martin Heidegger scriveva che l’angoscia è una “situazione emotiva eminente”. Voleva dire che è “una particolare tonalità emotiva”, importante ed esclusiva (eminente), propria degli esseri umani. Egli scriveva che l’uomo (che il filosofo chiamava “l’Esser-ci”), “è condotto dall'angoscia in cospetto del proprio essere”. E qual è essere dell’uomo? Che cosa gli si presenta di così peculiare nella dimensione dell’angoscia? In un libro che si intitola Fenomenologia della vita religiosa (Adelphi 2003), Heidegger negli anni ’20-’21 scrive che l’angoscia è “— possibilità portata dinanzi a sé. — Possibilità della privazione”. Prendere coscienza che la vita è possibilità significa rendersi conto che la vita non è già data, ma che è un ventaglio di possibilità. In queste possibilità non solo facciamo delle scelte, ma decidiamo di noi stessi. Decidiamo cioè quello che diventiamo. Essere esposti a questo ventaglio di possibilità (anche negative) per proseguire nella vita crea un senso di vertigine, talvolta di “vuoto”.
Dici bene che a questa condizione “niente sembra porre rimedio”. Perché non c’è cosa (ni-ente lo traduciamo come “nessun ente”, ossia nessuna cosa) che possa saziare l’angoscia esistenziale.
3. Davvero nessun rimedio? Abbiamo detto che “nessuna cosa”, nessun oggetto, può cancellare questa inquietudine. E allora? Ti propongo alcune idee.
a. Intanto ti direi di fare un buon uso dell’angoscia. È vero che – come dici tu - a volte “devasta”, ma se è la modalità in cui si presenta la peculiarità dell’esistenza, allora vale la pena di ascoltare a fondo ciò che caratterizza l’intima natura dell’uomo. Assaporando questa “tonalità emotiva”, possiamo pensare in modo più intenso, dirigere meglio le scelte, vivere in modo più responsabile. Direi che l’uomo diventa uomo quando, sottoposto ai tormenti dell’angoscia, ha imparato a conoscerla e ad organizzare la propria vita guardando in faccia la caducità della propria esistenza. E’ un dolore che aumenta la conoscenza. Sapere che è un dolore che attraversa la vita umana, ma che è grazie ad esso che si entra a contatto con il riverbero più profondo della vita, rende il vissuto più autentico, l’ideazione meno infantile.
b. Raccogli le riflessioni che maturano in te anche in questi momenti: d’altra parte abitano in noi molte considerazioni, molte idee. Rileggendo anche a distanza di tempo le tue riflessioni scoprirai che i temi che sono venuti alla luce sono molto simili a quelli che i grandi autori hanno raccolto nelle loro poesie, nelle opere artistiche e letterarie. Ti accorgerai di quanto gli artisti hanno saputo sostare accanto a certi pensieri per creare le loro opere.
c. L’angoscia non è mitigata dalle cose, ma dalle relazioni. Proprio perché siamo esseri che si affacciano su un mare di possibilità e non possiamo colmare il vuoto dell’esistenza con degli oggetti, possiamo instaurare relazioni. La relazione è terapeutica. Dialogare con gli atri, ascoltarli, prendersi cura delle persone con cui si è “in-relazione” scolastica o professionale è una buona risposta a ogni tormento, a ogni vissuto angosciato.
d. Diventa attiva. Prendersi cura della vita è un ottimo modo per dare senso alla vita.
Un caro saluto,
alberto

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