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Cor-rispondenze

lunedì 26 ottobre 2009

La vera amica


Caro professore,

Molte volte mi è capitato nella mia vita quotidiana di fermarmi un attimo e di allontanarmi dalla solita frenetica vita per il solo motivo di pensare e riflettere: già, certe volte mi passa in mente la domanda (che può anche parere stupida...): " ma esiste una vera amica, la cosiddetta best friend? ". Qualche volta ho provato a darmi una risposta, nella maggior parte di queste ho creduto che ci fosse davvero... ma poi, un po' a causa di quello che mi succede (cioè le relazioni che ho con le mie amiche) e un po' io che cambio sovente idea... non sono affatto sicura della risposta. Una persona che ti aiuti nel momento del bisogno, che non ti tradisca mai, che tiene per sé (e solo per sé) tutti i segreti che le confidi, con cui è piacevole stare insieme... come una mezza sorella... questa persona esiste davvero? Sembra più che altro un personaggio delle favole, in cui tutto è fantasia e la vita solo un “lieto fine”. Io mi definisco molto sensibile, cioè per ogni minimo disaccordo o discussione, rimango sempre molto male, non perché sono permalosa, ma perché credo di aver ferito involontariamente un'altra persona senza volerlo. Ho avuto molte carissime amiche e fino all'ultimo credevo che fossero veramente uniche e speciali, ma poi scattava sempre qualcosa che ci allontanava (ad esempio, degli atteggiamenti un po' a “tradimento”). Come si fa a riconoscere una migliore amica?

Irene


Cara Irene,

L’amicizia (philía) è una forza potente: pensa che il filosofo Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.) eleva la philía (amicizia, amore, concordia) alla forza che unisce le cose stesse a differenza del néikos, la discordia che distrugge e separa. Una forza importante che muove anche gli elementi del cosmo stesso. Siamo partiti da lontano, dunque, ma ora ci avviciniamo alle amicizie tra gli uomini. Nella storia troviamo racconti bellissimi di grandi amicizie: Davide e Gionata, Achille e Patroclo, Oreste e Pilade, Montaigne e La Boétie e, ovviamente, moltissimi altri. Nella tragedia Oreste di Euripide (V sec. a.C.) è narrata l’amicizia tra Oreste e Pilade; ad un certo punto Pilade dice a Oreste: “Mettimi intorno il tuo braccio, appoggiati al mio fianco. Il tuo male ti ha stremato. Ti porto io attraverso la città, senza curarmi della folla. Non mi vergogno. Dove avrò da mostrarmi amico se nelle terribili prove che affronti non ti do aiuto?". E più avanti afferma addirittura che, se mai lo dovesse tradire, preferirebbe che la terra non accogliesse più il proprio sangue. A sostegno del valore dell’amicizia dirà ancora: “un uomo che fa uno con te in ogni sentimento, anche se è di fuori, è più di mille consanguinei averlo come amico”. L’amicizia supera dunque il legame della parentela stessa e, pertanto, conclude Oreste: “non c’è nulla al mondo che sia più di un amico sincero”. Ma è soprattutto Aristotele a parlare della natura dell’amicizia. In un’opera importante, la Grande etica, Aristotele dice: ”Quando noi vogliamo vedere la nostra faccia, la vediamo guardandoci nello specchio, similmente, quando vogliamo conoscere noi stessi, potremo conoscerci guardando nell’amico”. È infatti grazie all’altra persona che noi scopriamo le nostre peculiarità, i nostri bisogni e andiamo incontro al mondo. Nell’Etica nicomachea, invece, Aristotele scrive che l’amicizia è “assolutamente necessaria alla vita” e che “senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni”. L’amicizia è dunque una cosa necessaria e bella, perché: “due che marciano insieme…, infatti hanno una capacità maggiore di pensare e di agire”. Nell’amicizia ci si procura gioia a vicenda e si fa il bene l’uno dell’altro. Secondo Aristotele ci sono diversi tipi di amicizia, alcuni fondati sull’utile, altri sul piacere e altri sulla virtù. La forma più stabile di amicizia è però quella fondata sulla virtù. Chi è buono ama l’amico per se stesso e in modo duraturo. Si può essere amici, infatti, perché si ottiene qualche utile; o perché se ne ricava un qualche piacere; in questi casi non si amano ancora le persone in se stesse, ma per ciò che da esse si ottiene: l’utile o il piacere. Ma se uno non è più utile o non è più piacevole allora cessa il motivo dell’amicizia. Aristotele dice che l’amicizia legata all’utile è tipica soprattutto degli anziani, mentre quella legata al piacere è tipica dei giovani che perseguono soprattutto i piaceri immediati. Poiché l’utile non è costante e ciò che è piacevole può variare, allora queste amicizie possono esaurirsi facilmente. L’amicizia muta allora col mutare di ciò che attrae, affascina o diverte. Infatti col passare del tempo le cose che producono piacere sono diverse: “è per questo che i giovani - dice Aristotele - rapidamente diventano amici e rapidamente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta col mutare di ciò che fa piacere, e il mutamento di un tale tipo di piacere è rapido”. L’amicizia perfetta è invece l’amicizia degli uomini buoni che sono simili per virtù. Questi infatti vogliono il bene l’uno dell’altro. La virtù è un abito, per Aristotele, non qualcosa che varia continuamente. Quindi grazie alla propria virtù, che è un certo modo di essere, le persone vogliono il bene degli altri e da questo traggono soddisfazione. L’amicizia matura non è appiattimento dell’uno sull’altro, né subordinazione. Altrimenti accade che l’amicizia venga soffocata. È giusto quello che chiedi, cara Irene: ossia è necessario che l’amica sia in grado di sentire l’urgenza che senti tu della condivisione di momenti importanti, la necessità del dialogo leale e una certa sofferenza per la tua assenza; è fondamentale che non manchi fede alla parola data e che sappia custodire le cose intime. L’amico/a condivide con noi “un’intimità allargata”; nasce, infatti, tra due persone una forma di fiducia, dove il reciproco fidarsi è un af-fidarsi dell’uno all’altro, ossia un consegnare all’altro una parte di noi, spesso la più recondita. Perché allora sentiamo ogni tanto lo scricchiolìo di certe amicizie, anche profonde e intime? Mi viene in mente un episodio curioso letto in una vignetta e riportato da Joseph Epstein in un bel libro sull’amicizia (Amicizia, Il Mulino, 2008). All’uscita dalla chiesa un uomo esclama: “Come posso amare i miei nemici, se non mi piacciono neanche i miei amici?”. Ora, fatti salvi lealtà e rispetto reciproci, forse a volte chiediamo troppo agli amici e vorremmo che non cambiassero mai. Accusiamo loro del cambiamento, ma non ci rendiamo conto del nostro. Proiettiamo sull’altra persona quello che non accettiamo di noi: ossia la continua trasformazione. Ogni persona nelle relazioni e grazie alle relazioni si trasforma. Ma anche l’altro evolve, e cambia. Stare con un amico significa stare con una persona in un reciproco adattamento creativo. Una importante pensatrice francese della prima metà del Novecento, Simone Weil, dice che nell’amicizia è importante questo rispetto per la crescita reciproca e per l’autonomia: “se da una delle due parti non v’è rispetto per l’autonomia dell’altra, questa deve troncare il legame, per rispetto verso se stessa”. L’amicizia è tale se è amicizia nella libertà, altrimenti l’amicizia stessa viene intaccata e prima o poi il rapporto si scioglie. Mentre nell’adolescenza l’amicizia è una sorta di fusione, nell’amicizia matura gli amici, dice sempre Weil: “accettano pienamente di essere due e non uno, e rispettano la reciproca distanza creata dal fatto di essere due creature distinte”. L’amicizia, dirà ancora la filosofa, è “il miracolo per il quale un uomo accetta di guardare da lontano, e senza accostarsi, un essere che gli è necessario quanto il nutrimento” (L’attesa di Dio, Adelphi, 2008 ).

Un caro saluto,

Alberto

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