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Cor-rispondenze

lunedì 5 ottobre 2009

Il senso della vita


Caro professore,

Uomini che hanno compiuto gesta incredibili, uomini che hanno passato la vita a lottare per il raggiungimento di... soldi, vittorie, felicità, sapere. A che scopo? Dove sono ora? Non ci sono... non esistono, non più. Tutti i loro sforzi sono stati cancellati dalla loro morte. Probabilmente hanno lasciato un qualcosa per il futuro, ma per un futuro che comunque è destinato scomparire. Passiamo la vita cercando la felicità, immagazzinando ricordi, esperienze, che tanto saranno cancellati. E allora, che senso ha? La nostra vita ha un senso? Siamo semplici "animali più evoluti" o ci è riservato davvero qualche cosa di più? La scienza associa a ogni nostro sentimento una reazione chimica, ma è tutto così determinato? Noi dove siamo allora? Se tutto ciò che facciamo, che siamo... è il risultato di atomi, e basta... allora la nostra anima dov’è?
Serena



Cara Serena,
Superstite dei campi di sterminio, lo psichiatra viennese Victor Frankl pubblicò nel 1946 un libro molto importante, "Uno psicologo nei lager ", uno studio dedicato alle sofferenze quotidiane che i prigionieri patirono nei campi di concentramento. Nella prefazione al libro, lo psicologo Gordon W. Allport, commentando la profonda e drammatica esperienza vissuta dall’autore, riassume la tematica dell’opera con questa espressione: “Se la vita è sofferenza, sopravvivere è trovare il senso di questa sofferenza”. Il tema del senso della sofferenza e, più in generale, del senso della vita è infatti il filo conduttore di tutto il libro. Victor Frankl è convinto che per vivere e per sopravvivere sia necessario dare un senso alla vita. Non solo. Ritiene inoltre che il senso che ogni uomo attribuisce alla propria esistenza concreta sia la forza che gli permette di resistere anche quando è costretto a vivere vicende assurde e paralizzanti. "La vita – dice infatti Victor Frankl- conserva il suo senso anche quando si svolge in un campo di concentramento, quando non offre quasi più nessuna prospettiva di realizzare dei valori, creandoli o godendoli, ma lascia solamente un'ultima possibilità di comportamento moralmente valido, proprio nel modo in cui l'uomo si atteggia di fronte alla limitazione del suo essere, imposta con violenza dall'esterno ". Rievocando la celebre frase di Nietzsche “chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come”, egli afferma che "L'uomo può essere nel suo intimo più forte del destino che gli viene imposto dall'esterno ". E’ una frase che può sembrare paradossale, soprattutto nell’esperienza di estrema privazione di un lager. Può essere più forte, perché anche nel momento della massima miseria l’uomo possiede ancora la libertà interiore. L’esplorazione psicologica condotta su di sé e sui compagni internati gli ha rivelato che diventavano schiavi della violenza del mondo del lager coloro che si erano già abbandonati prima spiritualmente e umanamente, e coloro che non avevano più “un sostegno interiore". Come dire che coloro che non hanno più un fine attendono avviliti la fine. " Com'è noto, la parola latina finis – scrive Frankl - ha due significati: fine e scopo. Quando l'uomo non è in grado di prevedere la fine di un'esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, come l'uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore. Si arriva a fenomeni di decadimento interiore, sul genere di quelli già noti in altri settori della vita ". Fenomeni di disfacimento interiore che si constatano anche in coloro che non hanno vissuto l’esperienza rovinosa dei lager, ad esempio nei disoccupati. Poiché la loro esistenza è diventata instabile, essi faticano a vivere volgendo lo sguardo al futuro, verso uno scopo futuro. L'esperienza del lager cancellava il futuro nella mente degli uomini: Frankl ricorda che i suoi compagni erano soliti dire che il giorno - a causa delle violenze sofferte a tutte le ore - durava più di una settimana. Nei campi di concentramento gli uomini cessavano di esistere umanamente, poiché avevano "perso il sostegno di uno scopo futuro". I pensieri e la vita interiore si concentravano sul passato e la riflessione diventava pertanto "retrospettiva". Il tentativo di valorizzare un lontano passato di felicità e di soddisfazione a causa del contrasto con il vissuto induceva i prigionieri "a lasciarsi andare, a lasciarsi cadere - poiché comunque " tutto [era] inutile". Così le vite naufragavano a causa delle atrocità della prigionia. Il tentativo di reagire interiormente o di opporsi ai fenomeni psicopatologici indotti dall'internamento poteva istintivamente agevolare in qualcuno pensieri rivolti a scopi futuri. Qualche internato cercava di mettere in atto queste iniziative. Dice l'autore: "quasi tutti avevano qualcosa che li sorreggeva: un pezzo di futuro. L'uomo ha invero un carattere peculiare: può esistere solo nella visuale del futuro ". Così nei momenti più difficili dell'esistenza l’immagine del futuro in qualche caso riusciva a sorreggere la vita sfilacciata delle persone. Quanto racconta di sé narra che, quasi piangendo per i dolori ai piedi feriti dentro scarpe fasciate, a causa del gelo e del vento dopo chilometri di marcia per andare al posto di lavoro, il suo spirito rifletteva sui mille piccoli problemi della misera vita del prigioniero: " che ci sarà da mangiare stasera? Non è meglio cambiare la fetta di salame, che forse ci daranno come quota supplementare, con un pezzo di pane? Devo cercare di vendere l'ultima sigaretta rimasta del " premio " di quattordici giorni fa, per una scodella di minestra? Dove trovo un pezzo di filo di ferro per sostituire quello che mi serve da stringa per le scarpe che si è rotto?” Perché tutti i pensieri erano sempre concentrati su piccole miserie delle violenze subite, l'autore racconta un trucco personale per superare l’ossessione: si immaginava in una sala per conferenze, illuminata, calda e bella, e davanti a sé un pubblico interessato seduto su comode poltrone. A tenere una conferenza sulla psicologia del campo di concentramento. In questo modo riusciva in qualche maniera a sollevarsi dalla situazione presente e dal dolore e a guardare il dolore stesso come se fosse passato. Egli sapeva bene che chi non crede più nel futuro, nel suo futuro in un campo di concentramento è completamente perduto. Il crollo fisico e spirituale infatti avveniva in modo piuttosto rapido attraverso una specie di crisi. D'altra parte l'internato aveva davanti a sé esempi continui a cui accadevano questi episodi. Molti internati sopravvissuti raccontano dei momenti in cui alcuni di loro si sono lasciati andare, e di quanto era difficile convincerli a vestirsi per presentarsi nella piazza per l'appello. " Quando si arriva a questo punto, scrive Frankl, nulla ha più effetto, nulla può spaventare - né preghiere, né minacce, né botte - tutto è inutile. Quell'uomo resta semplicemente sdraiato, quasi non si muove e quando la crisi è conseguenza di una malattia, rifiuta di lasciarsi portare all'ambulatorio o di intraprendere qualsiasi altra cosa per sé. Si arrende! Resta sdraiato persino nella sua urina e nelle sue feci; non si preoccupa più di nulla ". Frankl racconta un sogno: un uomo aveva sognato come una profezia il giorno 30 marzo del 1945 come il giorno della liberazione. E aveva creduto in quel sogno. Quando la data della profezia si stava avvicinando, ma non sembrava vicina la deliberazione, accade qualche cosa di nuovo. Questo uomo ebbe una febbre altissima e il 30 marzo prese a delirare e infine perse conoscenza. Il giorno dopo morì. Frankl mette in relazione lo stato d'animo di un uomo, l'intima redazione tra la fiducia, il coraggio, la speranza e le difese immunitarie dell'organismo. Fino a considerare che la causa ultima della morte fosse riconducibile alla grave delusione. Era stata paralizzata " la sua fede nel futuro e della sua volontà di futuro ". …" Guai a chi non trovava più uno scopo di vita, non aveva un contenuto di vita, non scorgeva nessuno scopo nella sua esistenza; svaniva il significato del suo essere, perdeva ogni senso anche la resistenza ". … L'autore propone allora un rovesciamento di tutta la problematica del senso ultimo della vita: non importa che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa sapere cosa la vita attende "da noi". "Non chiediamo infatti più il senso della vita, dice Frankl, ma sentiamo di essere sempre interrogati, come gente a cui la vita pone in continuazione delle domande, ogni giorno e ogni ora, domande a cui ci invita a rispondere, dando una risposta esatta, non solo meditazione oppure a parole, ma con un'azione, un comportamento corretto. Vivere, in ultima analisi, non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte all’esigenza di quell'ora. Quest'esigenza, e con essa il significato della vita, munita da uomo a uomo, di attimo in attimo. " Qui non si parla più del senso della vita in generale. In ogni momento l'uomo infatti plasma il suo destino, a volte sopportando l'occasione a volte sperimentando un'altra possibilità. Persino nel dolore l'uomo ha la possibilità di essere messo di fronte ad un momento unico. Nietzsche diceva che occorre vivere fino in fondo anche il dolore. Anche nel dolore l'uomo si rende conto di essere unico e originale, nel dolore che gli riserva il suo destino. Ognuno deve assumere su di sé la sua sofferenza. Nei lager i pensieri aiutavano a superare la disperazione quando non c'era altra soluzione e non s'intravedeva via di salvezza o di fuga. E allora diventa bellissima la frase dell'autore: " a noi premeva di ricercare senso dell'esistenza come un tutto che comprende anche la morte e non garantisce solo senso della " vita ", ma anche senso della sofferenza della morte: per questo senso abbiamo lottato! ". Alcuni riuscirono a sopravvivere pensando che la vita attendeva qualcosa da loro, che qualcosa si aspettava nel futuro: uno era atteso dal padre, un altro che non aveva più nessuno sapeva che era la sua opera ad attendere il compimento, e dunque egli era indispensabile per quel lavoro e nessuno avrebbe potuto sostituirlo. Proprio l'essere indispensabile e insostituibile di un individuo responsabilizzava le persone e le esortava a continuare a vivere. Nessuno vuole soffrire o morire senza senso. Per questo quando ci appropriamo della nostra vita nella sua varietà, nelle gioie e nelle sofferenze, abbiamo dato senso non ad un mondo ideale, ma alla nostra vita reale concreta. Abbiamo dato significato alla vita. E riusciamo a sopportare le miserie che incontriamo nel nostro percorso più o meno lungo.



Un caro saluto,
Alberto

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