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Cor-rispondenze

lunedì 18 dicembre 2023

Libri consigliati 2023

 


Piero Boitani, Timeo in Paradiso. Metafore e bellezza da Platone a Dante, Donzelli 2023.

https://www.youtube.com/watch?v=Y03IXckscXY&ab_channel=italiamedievale


lunedì 3 luglio 2023

libri consigliati 2023

 



La quarta rivoluzione - Luciano Floridi - Raffaello Cortina Editore -




Pietà e terrore, Giulio Guidorizzi. Giulio Einaudi editore - ET Saggi



In viaggio con gli dei. Guida mitologica della Grecia - Giulio Guidorizzi - Silvia Romani - - Libro - Raffaello Cortina Editore - | IBS





Mauro Bonazzi, Creature di un sol giorno, Einaudi.




Mauro Bonazzi, Il naufragio di Ulisse, Einaudi.



Spostare la Luna dall'orbita. una notte al Museo dell'Acropoli - Andrea Marcolongo



Il continente selvaggio - Keith Lowe



L' Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon



Maria Lorenza Chiesara, Sette brevi lezioni sullo scetticismo




John Sellars, Sette brevi lezioni sull’epicureismo, Epicuro e l'arte della felicità




Lucio Anneo Seneca, La brevità della vita




Lucio Anneo Seneca, Dialoghi morali



Lucio Anneo Seneca, La vita felice

lunedì 1 maggio 2023

Al di qua del bene e del male




L’espressione «al di là del bene e del male» significa che le pulsioni e la «volontà di vita» non sono arginabili entro i confini della logica o nelle prescrizioni razionali e che l’istinto non si lascia ingabbiare né dall’etica né dalla razionalità. Gli uomini – sia nell’agire individuale (etica) sia in quello collettivo (politica) – hanno però necessità di relazionarsi agli altri, all’ambiente, di giudicare i fatti, di immaginare le generazioni future e non possono pertanto essere indifferenti alla questione del bene e del male. La linea di demarcazione, tuttavia, può essere difficile da tracciare. Non parliamo solo di casi particolari come nei campi di concentramento descritti da Primo levi. L’autore di “Se questo è un uomo” inserisce nell’opera un capitolo intitolato proprio “Al di qua del bene e del male” per spiegare come nei campi di concentramento, per le situazioni eccezionali che si erano create, i criteri di bene e male non erano così semplici da individuare. Scrive Levi: «Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole «bene» e «male», «giusto» e «ingiusto»; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato». La riflessione sulla necessità di valutare i comportamenti umani non è però vanificata dalle situazioni anomale, ma è necessaria nella vita quotidiana. Perché dovremmo occuparci del bene e del male e non ritenere la discussione superflua o irriducibilmente soggettiva e dunque abbandonarci al relativismo? Perché  – dice la filosofa Roberta de Monticelli in un libro intitolato proprio “Al di qua del bene e del male” (Einaudi, 2022) – i confini del bene e del male rappresentano «i limiti oltre i quali non stanno mondi nuovi, oltre-umani, ma sopraffazione e distruzione». Senza razionalità e senza valori regnano infatti ingiustizia, indifferenza, forme varie di prepotenza e di tirannia, vessazioni, persecuzioni, violenze di varia natura. La riflessione morale è fondamentale: per l’uomo è necessario circoscrivere un territorio che abbia al centro la vita e quindi il bene e il male, perché la vita sociale si muove all’interno di quello spazio e non al di fuori di esso. Se si oltrepassa la sfera dei valori – intesi come principi condivisi – che regolano i comportamenti, allora si vanifica anche la responsabilità individuale, ossia la necessità di rispondere delle proprie azioni di fronte agli altri. Davvero la nostra vita si può muovere al di à del bene e del male e le azioni essere paragonate a una somma indistinta di atti più o meno equivalenti? Possiamo barattare la responsabilità con l’indifferenza, la coscienza con incoscienza, la colpevolezza con l’apatia? L’uomo deve sempre rispondere delle proprie azioni, non può essere estraneo ad atti scriteriati, immaturi o incoscienti. Le istituzioni e le leggi nascono per arginare l’assenza di responsabilità. Il teologo Vito Mancuso, in “Etica per giorni difficili” (Garzanti, 2022), afferma che Nietzsche stesso, il filosofo che riflette a partire dal corpo e dalle sue pulsioni, dimentica che è già il corpo a stabilire per la sua stessa sopravvivenza dei criteri naturali tra il bene e il male. Scrive l’autore: è il corpo stesso «a imporre una precisa fisiologia per la quale vi sono alimenti, bevande, temperature, abitudini che producono bene e altri che producono male. È proprio il pensare a partire dal corpo a farci comprendere che tutte le cose sottostanno inevitabilmente alla logica del bene e del male, la quale è anzitutto fisica, chimica, biologica». E così, conclude l’autore: «È proprio il corpo a mostrare che non esiste nessun al di là del bene e del male, perché per noi umani dotati di corpo tutto è al di qua del bene e del male, a partire dalle cose più elementari quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il cibo che mangiamo, fino alle più elevate produzioni della mente. Tutto ciò che procede e ritorna alla vita è sempre al di qua del bene e del male». Forse solo gli dei greci sono al di là del bene e del male, come diceva Epicuro nel IV sec. a.C. Per il filosofo ellenistico le divinità greche sono indifferenti alle vicende umane: non si occupano degli uomini, perché non intervengono né per mitigare le asprezze né per rimuovere il dolore dalla vita. Se gli dei greci vivono in una dimensione separata dal mondo, gli uomini vivono invece in un’area in cui il bene e il male sono fondamentali: intenzioni, azioni, aspirazioni, atteggiamenti e scopi non sono mai al di là del bene e del male. La riflessione etica è allora indispensabile. Per quanto l’etica sia stata accusata di ostacolare la vita e di ridurne la sua potenza, senza di essa – ossia senza una riflessione razionale sull’agire – è l’impulso a imprigionare la vita o a costringere l’uomo ad una dimensione esclusivamente pulsionale in cui la coscienza è assente. Vale la pena sottoscrivere la dichiarazione di Mancuso nell’opera “I quattro maestri” (Garzanti 2020): «Io preferisco rimanere al di qua del bene e del male, dalla parte del bene e della giustizia quale sua privilegiata manifestazione. Ritengo che il bene e la giustizia siano il compimento dell’umanità e ritengo che l’umanità sia il compimento del mio essere, una dimensione che non va superata ma onorata fino in fondo, anche accettando la parte di sofferenza che la vita umana inevitabilmente comporta».

Un caro saluto,

Alberto













lunedì 23 gennaio 2023

Al di là del bene e del male

 


Ecco una questione spinosa: “Al di là del bene e del male” o “al di qua del bene e del male”? Quale espressione vi sembra preferibile? La tematica è intrigante, le proposizioni appaiono simili, pare che la posta in gioco sia la stessa, ma il modo di affrontare la vita che discende dalla condivisione della prima o della seconda valutazione è profondamente diverso. Questa settimana indaghiamo la prima espressione e rinviamo alla prossima il commento della seconda. La frase «al di là del bene e del male» è il titolo di un libro di Nietzsche (1886) scritto nel periodo in cui il filosofo lavorava ad una delle sue opere più importanti, “Così parlò Zarathustra” («durante gli intermezzi di quella nascita»). Nietzsche afferma che, dopo aver «vagabondato» tra molte morali «più raffinate e più rozze che hanno dominato fino ad oggi o dominano ancora sulla terra», è riuscito a classificare la varietà dei casi in cui si è imbattuto in due tipologie fondamentali. Il giudizio del filosofo è perentorio, esistono «una morale dei signori» e «una morale degli schiavi». Nella storia si possono individuare fondamentalmente due classi sociali, ossia due gruppi antagonisti: i dominatori e i dominati di ogni epoca. «Bene» e «male» avranno dunque significati diversi a seconda se a creare la tavola dei valori saranno i primi o i secondi. Scrive l’autore: «Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata - oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado». Nel corso dei secoli i dominatori hanno imposto i propri valori e hanno determinato un preciso significato da attribuire ai concetti di «bene» e «male»; in altri periodi, i dominati che si sono ribellati alle condizioni dispotiche e opprimenti dei primi hanno ribaltato quella tavola dei valori e ne hanno imposto una alternativa. «Bene» e «male» non indicano pertanto delle realtà oggettive («ontologiche»): le azioni sono considerate buone o cattive a seconda dei punti di vista e dell’utilità di chi le pratica. Gli aristocratici, ad esempio, nelle scelte di vita esprimono la loro volontà di potenza e, secondo l’autore, sono pertanto degli autorevoli creatori di valori, mentre gli schiavi e gli oppressi, poiché subordinano se stessi alla collettività e considerano l’individuo meno importante della comunità, pretendono che questi agisca non per se stesso ma per gli altri. Privilegiano dunque azioni di segno opposto, quali la compassione e l’altruismo. Gli aristocratici considerano «buono» ciò che è superiore ed esprime fierezza d’animo e disprezzano chi non sa elevarsi ad essere sufficientemente orgoglioso, a compiacersi di sé. In questo caso i termini «buono» o «cattivo» vengono tradotti nei concetti di «nobile» e «spregevole». Scrive Nietzsche: «L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori». Chi è forte fa un po’ quello che gli pare e dà valore a ciò che potenzia la propria attività. La trasposizione dei concetti di «bene» e «male» nelle categorie di «buono» e «malvagio» ha invece un’altra origine: rispecchia la visione – e dunque la morale – degli oppressi e dei sofferenti, che serve loro a sopportare il peso dell’esistenza. I deboli definiscono pertanto “malvagio” ciò che un dominatore considera invece espressione di fierezza o potenza. Protagonisti della «morale degli schiavi» sono «gli oppressi, i conculcati [quelli calpestati], i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi». La diversa disposizione gerarchica di ciò che è desiderabile può andare dunque a vantaggio di una classe sociale o di un’altra. È come se le due classi sociali si orientassero con mappe territoriali reciprocamente capovolte, per questo gli obiettivi da raggiungere sono così diversi e impossibili da condividere. I filosofi occidentali che hanno cercato di razionalizzare la vita e di fissare rigorosamente le qualità della morale, secondo Nietzsche, non hanno capito – o hanno fanno finta di non capire – che vita e morale non sono sovrapponibili. La vita è sempre «al di là del bene e del male», perché è potenza vitale che deriva dalla natura e come questa non ha obiettivi particolari se non quello di esprimere la propria forza. La natura dell’uomo è dunque volontà di potenza, è vita che vuole la vita, ossia vuole solo la propria espansione. Scrive il filosofo: «Un’entità vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza – la vita stessa è volontà di potenza». La vita è dunque al di là del bene e del male, sfugge ad ogni tentativo di costringerla in un ordine, perché è indifferente alle categorie umane. È semplicemente energia che pulsa, mentre il tentativo di ricondurre l’agire agli schemi di «bene» e «male» è un’esigenza umana o, per dirla con Nietzsche, semplicemente «troppo umana». Tuttavia, anche se la natura è indifferente all’uomo, alle sue intenzioni e ai suoi programmi, molti filosofi non si sono rassegnati a ostentare o a condividere il punto di vista del più forte, ma hanno mostrato che è necessario considerare tutta quella realtà che esiste invece «al di qua del bene e del male».

Un caro saluto,

Alberto











lunedì 16 gennaio 2023

Vous êtes embarqués



Nei primi giorni del nuovo anno molti quotidiani hanno riportato questa notizia: «Gli italiani tornano a scommettere e a giocare online». Apprendiamo così che nel corso del 2022 la spesa per gratta e vinci, lotto e giochi online è arrivata quasi a 20 miliardi di euro e che è aumentata del 28% rispetto all’anno precedente. Siamo dunque un popolo di santi, poeti, navigatori e soprattutto di scommettitori. Per carità, gli uomini scommettono da sempre: quando intraprendono una guerra, stipulano un’alleanza, assumono un cibo sconosciuto, si avventurano in luoghi inesplorati, fanno scelte azzardate, si fidano di una persona – nelle amicizie o in amore –, rischiano la vita in mare o avviano attività economiche. Non solo gli uomini comuni, ma anche i grandi protagonisti della storia sono stati incalliti scommettitori. Winston Churchill puntava denaro un po’ su tutto: sulle date di scioglimento del parlamento, sui risultati dei casi giudiziari e delle partite di tennis, sull’entità delle avanzate militari sui campi di battaglia, su chi sarebbe diventato primo ministro inglese o presidente americano. Se la scommessa può essere indirizzata ad ogni ambito in cui si scorgono delle alternative, occorre considerare che la vita stessa è la prima grande scommessa dell’uomo, giorno dopo giorno, contro la fame, le malattie e alla fine contro la morte. Gli uomini potevano lasciar fuori dal brivido dell’azzardo la questione di Dio? Certamente no. Nel suo breve trattato su “L’utilità di credere”, Agostino nel IV secolo d.C. afferma che la fede cristiana è una sorta di scommessa necessaria in cui il rischio è modesto e il guadagno alto. Ma è il filosofo francese Blaise Pascal a riproporre la questione in una parte dell’opera conosciuta sotto il titolo di “Pensieri” (1670) intitolata «le pari», «la scommessa». Pascal tratta la questione dal punto di vista del calcolo delle probabilità. Non propone pertanto un’appassionata riflessione teologica, ma una sobria indagine statistica. Scommettiamo allora? Pari o dispari? Alcuni sceglieranno pari, altri dispari. Chi ha ragione? Secondo Pascal, nessuno: «Infatti, sebbene si trovi ugualmente in errore sia chi sceglie croce sia l’altro, entrambi sbagliano. Il partito giusto è non scommettere». Alla domanda: «scommetti?», la risposta più razionale sarebbe dunque: «preferirei di no», oppure: «facciamo un’altra volta». Si possono esibire molte scuse: «l’argomento non mi interessa», «non ho abbastanza denaro». Oltre alle due classiche alternative (sì o no, testa o croce) abbiamo pertanto anche la possibilità di declinare l’invito. Sulla questione di Dio, Pascal avverte che la posizione dei giocatori è diversa. Perché? Il filosofo francese ripete: perché «Vous êtes embarqués», «voi siete imbarcati», intendendo con questa espressione che gli uomini sono già dentro la vita e non possono chiamarsi fuori dal gioco. Essere imbarcati nella vita è diverso dall’imbarcarsi su una nave. Un tempo si saliva a bordo di una nave per sfuggire ad una pena ineluttabile, a una vita infelice, per curiosità, per sfida, per mostrare il proprio coraggio, per denaro, per noia. In ogni caso, per scelta personale. Gli uomini, invece, non hanno ricevuto incentivi per imbarcarsi nell’esistenza: si sono già ritrovati dentro, dalla nascita, senza alternative possibili. Sono da sempre “imbarcati”. Essere imbarcati è dunque una condizione ineluttabile – il corpo è il vascello – e ogni persona condivide la stessa sorte con gli altri esseri umani. Nessuno ha firmato un contratto per salire a bordo. Ci si è semplicemente già svegliati sulla nave. Così, anche se gli uomini decidessero di non scommettere, in ogni caso vivrebbero come se Dio ci fosse o non ci fosse. E alla fine la vita finisce per tutti. Se Dio esiste, secondo il filosofo, saranno le azioni individuali a giocare a vantaggio dei vari soggetti: in particolare la capacità di amare il prossimo e di rispettare i valori universali. Se guardiamo da vicino gli uomini, scopriamo che essi si comportano in un modo curioso: quando rischiano una somma finita sperano di guadagnare una somma più grande, pur sapendo che con grande probabilità perderanno il loro denaro. Comprano il biglietto della Lotteria Italia a 5 euro e sono consapevoli che l’opportunità di vincere è solitamente remota e che i 5 euro sono in fondo buttati. «Ma che sono 5 euro?», pensa la gente. «Si può vivere anche senza». Pascal afferma che se gli uomini trovano dunque “ragionevole” – ossia sopportabile – perdere qualcosa del finito per avere anche una sola possibilità di guadagnare una parte più grande sempre nel finito (5 milioni di euro), allora dovrebbero puntare su Dio, perché se perdono non perdono nulla (tutti muoiono), ma se vincono, vincono l’infinito. Scrive il filosofo: «Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che esiste, senza esitare!». «È sorprendente. Sì, bisogna scommettere». Pascal è un uomo di fede profonda, e nelle “Lettere provinciali” (1657) critica la fede di maniera, calcolatrice, quella che non proviene dal cuore. Per il filosofo la questione di Dio è di somma importanza e questa riflessione statistica è una sorta di gioco, di divertimento. La sua fede è sorretta da un bisogno interiore non da un calcolo utilitaristico. Egli, tuttavia, sembra avvertire i propri concittadini: «se proprio amate scommettere, allora deducete almeno le conclusioni corrette».

Un caro saluto,

Alberto 









lunedì 2 gennaio 2023

Dio è morto

 


Chi è vissuto negli anni Settanta – o chi in quegli anni è nato – porta con sé il ricordo di una canzone che ha cantato con gli amici o ha frequentemente ascoltato perché ha segnato un’epoca. La canzone è “Dio è morto”, di Francesco Guccini. Lo storico Miguel Gotor in “Generazione Settanta” (2022), riflettendo sull’impegno dei giovani cattolici nell’Italia del periodo del ’68, ricorda che molte canzoni del tempo erano considerate elementi di coesione ideale e morale. Parlando di questa canzone «scandalosamente intitolata Dio è morto, portata al successo dal gruppo dei Nomadi nel 1967» egli afferma infatti che essa era «una sorta di inno generazionale per i giovani cattolici impegnati nella politica e nel sociale contro il consumismo, animati da una speranza cristiana che veniva ad assomigliare a una radicale palingenesi rivoluzionaria: «perché noi tutti sappiamo / che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge / in ciò che noi crediamo». L’espressione «Dio è morto» ha ovviamente molti significati, basti pensare che nel Novecento c’è stata persino una teologia della “morte di Dio” sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta. Qui ci limitiamo a prendere in considerazione solo alcune tracce di tale formula contenuta nel libro “La gaia scienza” (1882) di Friedrich Nietzsche. Chi legge la pagina in cui il filosofo tedesco parla della morte di Dio («Gott ist tot») sa che si trova di fronte ad una delle pagine a più alta intensità drammatica della storia della filosofia dell’Occidente. Nietzsche introduce la vicenda attraverso l’annuncio di un «uomo folle» che dopo aver acceso una lanterna nella luce del mattino corre al mercato a gridare incessantemente «Cerco Dio! Cerco Dio!». Scrive Nietzsche: «E poiché proprio là si trovava­no raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò gran­di risa. "Si è forse perduto?" disse uno. "Si è smarrito come un bambino?" fece un altro. "Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?" gridavano e ridevano in una gran confusione». Ma la scena cambia immediatamente. Scrive il filosofo: «E l’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se ne è andato Dio?" gridò, "Ve lo voglio dire! L'abbiamo uc­ciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goc­cia? Chi ci diede la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Do­ve va essa ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non è il no­stro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagan­do come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte?». Nietzsche non ha come obiettivo dimostrare razionalmente la non esistenza di Dio. In fondo, se Dio esiste non dipende certo dalla consapevolezza dell’uomo o dalla sua capacità di attestarne l’esistenza attraverso la logica. La logica funziona bene quando si tratta di chiarire i discorsi, ma non può dimostrare né confutare ciò che eccede la natura umana. Allora cosa intende il filosofo? Egli si muove su un piano diverso. Spiega bene questo concetto il filosofo Umberto Galimberti nel libro “Le orme del sacro” (2000) quando scrive: «Per Nietzsche il problema non è di sapere se Dio esiste o non esiste, ma se Dio è vivo o è morto, se intorno all'idea di Dio ancora si organizza o non si organizza un mondo. E allora se, come nel Medio Evo, la letteratura è inferno, purgatorio e paradiso, se l'arte è arte sacra, se la donna è donna-angelo, Dio esiste, cioè "fa mondo". Ma se il mondo si organizza prescindendo dall'idea di Dio, allora "Dio è morto" e ad annunciarlo non sarà certo l'ateo, ma il folle che lo rivela sia ai credenti sia agli atei, legati gli uni agli altri dal problema dell'esistenza di Dio, invece che dal problema della sua presenza nella storia, della sua efficacia nel fare mondo». Il filosofo fa riferimento ad un processo di progressivo venir meno del sacro nella vita degli uomini che si chiama secolarizzazione. Gli uomini vivono facendo a meno di Dio: Dio non è centrale nella loro esistenza, essi indirizzano pertanto le loro domande di senso altrove e cercano di comprendere il mondo e la vita prescindendo dalla religione. Secondo Nietzsche sono dunque gli uomini ad aver ucciso Dio voltando lo sguardo in altre direzioni. Lo hanno ucciso nel momento in cui hanno deciso di pianificare la vita orientandosi su altri ideali come il denaro, la tecnica o su altre convinzioni. Per questo Nietzsche interpella non solo i credenti, ma anche i non credenti che pensano che l’antica certezza sia crollata e sbeffeggiano “l’uomo folle”. Essi si sentono sicuri che la scienza sia la certezza stabile da cui derivare i valori e che ad essa occorra rivolgersi per risolvere tutti i problemi: sono persuasi che la certezza religiosa sia tramontata lasciando il posto ad un’unica verità possibile. Nietzsche non si accontenta di questo esito. L’espressione “Dio è morto” per il filosofo significa che ogni certezza assoluta è destinata a naufragare e che l’uomo non ha né avrà mai fondamenti stabili. Il riso dei positivisti dell’Ottocento si ritorce contro i positivisti stessi che non intendono ancora la portata del venir meno di tutte le verità e non si rendono conto che è in atto un cambiamento storico epocale irreversibile.

Un caro saluto,

Alberto



lunedì 19 dicembre 2022

Scrutare l'abisso




Nella sentenza 146 contenuta in “Al di là del bene e del male”, Nietzsche scrive: «se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te». Che cosa significa esplorare un abisso? La parola abisso deriva dal greco: «byssos» significa «fondo» e il prefisso negativo «a» nega il vocabolo. Dunque, l’abisso è letteralmente qualcosa che non ha fondo («a-byssos»). Ora, perché scandagliare ciò che non ha fondo può ripercuotersi – magari negativamente – sulla persona? Il filosofo è chiaro: gli effetti non vengono avvertiti da chi sbircia frettolosamente, ma da chi scruta a lungo: insomma, gli individui superficiali non sembrano essere soggetti a rischio. Nella psicologia e nella filosofia si sono aperte almeno due strade interpretative. Il grande psichiatra Eugenio Borgna, nella sua straordinaria delicatezza narrativa, riferisce esperienze di depressione molto dolorose, quelle che sembra non abbiano fine. Nel libro “L’ascolto gentile” (2017), parlando di una donna di nome Francesca, scrive: «Quando la incontrai, l’angoscia dilagava nel suo volto talora percorso dal lampo di un sorriso fragile e fuggitivo che si spegneva. La rivedo nella sua grazia ferita, e mi domando come abbia potuto reggere il confronto con lei, con il suo dolore, con la sua sventura, con le sue parole e con il suo silenzio, nel corso di dodici mesi scanditi da colloqui, da telefonate, da e-mail, che mi portavano ogni volta sull’orlo di abissi senza fondo nei quali lei avrebbe potuto precipitare: recidendo la sua vita, e lasciando ferite anche nella mia». L’autore afferma che la contiguità prolungata con l’immensità del dolore altrui è in grado di contagiare e scandagliare in profondità anche la sensibilità del terapeuta, «lasciando ferite» anche in chi si avvicina per porgere aiuto. Così, è noto che dopo una lunga esposizione alla sofferenza, medici, psichiatri e psicologi possono correre dei rischi, poiché, per eccesso di empatia, possono essere «divorati» dalla pena dell’altro. Borgna ha sperimentato su se stesso tale condizione: «Certo, non veniva mai meno la mia attenzione alle cose che ascoltavo, la mia emozione, la mia angoscia: quando una persona cammina sull’orlo degli abissi anche la persona che l’accompagna rischia di essere contemporaneamente divorata dagli stessi abissi di angoscia, e disperazione». Per questo anche i professionisti, che si occupano di coloro che stanno affrontando una malattia o ad essa si sono stancamente arresi, hanno bisogno di sostegno, perché un’eccessiva esposizione al male li può piegare: l’abisso inghiotte, la sofferenza si espande, l’angoscia dilaga. Sul versante filosofico l’esperienza dello sgomento per il vuoto non proviene (solo) dai meandri del supplizio interiore, ma dalla perdita di un punto di appoggio per le proprie certezze. Blaise Pascal constata che l’uomo cerca di colmare il proprio desidero di infinito con oggetti finiti, e afferma che tale tentativo è fallimentare, perché l’aspirazione all’infinito che l’uomo scopre dentro di sé può essere colmata solo da Dio («quell’abisso infinito può esser colmato soltanto da un oggetto infinito ed immutabile»). Un’idea che condivide anche Spinoza, ma da una prospettiva diversa: se per Pascal il Dio che riempie l’abisso dell’animo umano è il dio del Cristianesimo – un dio di amore e di consolazione –, per Spinoza quel Dio è la struttura matematica della realtà e solo la comprensione di tale intelaiatura può fornire un fondamento saldo per la felicità dell’uomo. Entrambi hanno trovato un «byssos», un fondamento che li ripara dall’assurdo. Un paio di secoli dopo, Nietzsche constata invece che le certezze dell’uomo sono basi fragili ed effimere, supporti traballanti pronti a incrinarsi facilmente nel corso del tempo, perché nascondono spesso convenzioni e abitudini, paure e bisogni molto umani. E se sotto ogni fondo si spalancasse ancora un abisso, le certezze fossero costantemente scalfite e l’uomo non trovasse più punti di riferimento stabili per il proprio agire? Gli uomini vagherebbero senza meta, insicuri, perché confonderebbero convenzioni con verità, tradizioni con certezze. La prospettiva di Nietzsche è pertanto più inquietante e dolorosa. Egli è persuaso che l’uomo non approderà mai a certezze definitive e che ci sia «dietro ogni caverna una caverna più profonda», o meglio: «un abisso sotto ogni fondo». È questa consapevolezza che può destabilizzare l’uomo, perché lo colloca in alto mare sprovvisto di punti di riferimento sicuri. Da questa riflessione può essere sconvolto e avvertire che l’abisso “scruta” dentro di lui e che anche la scienza non lo salverà, come ha scritto Bertolt Brecht nella “Vita di Galileo”, ove afferma: «E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro “éureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale». Il Novecento ha capito presto che alcune invenzioni non hanno portato progresso ma distruzione di massa. Più esaminiamo le nostre accurate certezze più siamo consapevoli che possiamo sempre sprofondare: più guardiamo l’abisso più siamo destabilizzati e la voragine che si apre sotto i nostri piedi non si lascia colmare da alcuna ingenuità.

Un caro saluto,

Alberto